'If I am not for myself, who will be? And when I am for myself, what am I'? And if not now, when?'. È da questa famosa citazione del rabbino Hillel che nasce il settimo lavoro su lunga distanza degli Incubus. La mia intenzione e' quella di spazzare via i dubbi e le amarezze che mi e' capitato di leggere a riguardo e di tendere le lodi ad un disco che di sicuro vi ammaliera' e riuscira' a coinvolgervi emotivamente. L'approccio giusto che deve assumere l'ascoltatore e' quello di distaccarsi dai precedenti album e di abbandonare l'idea delle sonorita' tendenti al nu metal e sperimentali degli anni passati. Un esperimento commovente e allo stesso tempo coraggioso centrato sui significati reconditi dell'amore e della riscoperta dell'arte in generale. La melodia sconfinata e la voce di Brandon Boyd che si diffonde nei suoi toni piu' bassi e in un modo tremendamente onesto sono il cuore fervido del disco. La sezione ritmica e' risoluta ed in grado di dare importanza ad ogni singolo strumento e di sottolineare la competenza tecnica degli arrangiamenti che suonano minimali merito anche dell'esemplare produzione di un professionista come Brendan O'Brien (Pearl Jam, Rage Against The Machine). Un gioco perfetto di atmosfere in alcuni momenti splendenti e trasognanti ed in altri nostalgiche e impenetrabili che culminano in una sorta di psichedelia delicata. La struggente title track, la raffinata 'Promises, Promises', la piu' incisiva 'Isadore' e l'energico primo singolo 'Adolescents' sono i pezzi che vi legheranno saldamente a questa opera. La validita' dei californiani e' in questo caso riscontrabile anche nella capacita' di superare uno stile musicale consolidato che li ha portati al successo mondiale dedicandosi alla ricerca di un suono completamente nuovo. Non porsi dei limiti rende un gruppo ancora piu' grande.