Ritengo che definire i californiani come post-hardcore sia limitante e offensivo. I loro bassi sono giganteschi e citano a più riprese i Tool, i membri sono tutti famosi per altri progetti e in generale il trio non ha quasi niente di classificabile in modo spiccio. In formazione troviamo Mark Engles, chitarrista dei Dredg (che mi auguro tornino presto in studio di registrazione per regalarci il successore di ‘Chuckles And Mr.Squeezy’), Chris Robyn, drummer dei Far, e Ben Flanagan dei The Trophy Fire. Quest’ultimo con una voce in bilico tra Maynard James Keenan e Pete Loeffler dei Chevelle caratterizza non poco l’album, registrato a Oakland con Aaron Hellam, ma quello che colpisce di più, soprattutto rispetto all’esordio ‘...And We Explode’, è come i Black Map siano riusciti a costruire una scaletta senza mai ripetersi. ‘Foxglove’ e ‘Heavy Waves’ sono eccellenti esempi della loro duttilità, i riff non sono mai banali e alcune soluzioni melodiche stupiscono. Non pensate a niente di così commerciale ma ‘Run Rabbit Run’ e ‘Dead Ringer’ si fissano facilmente in testa e la seconda parte di album è ricca di sorprese. In tal senso ‘Indoor Kid’, ‘White Fence’ e ‘Cash For The Fears’ sono destinate a illuminare le prossime esibizioni live.