Quando ho conosciuto gli Hugar l’eco del loro omonimo debutto si era placata ma il loro fervore cinematico, probabilmente sviluppatosi in parallelo alla collaborazione con i Sigur Rós per la colonna sonora di Black Mirror, stava assumendo proporzioni smisurate. Poi è uscito ‘Varða’ e tutto è stato piu’ chiaro, la scena islandese ha cominciato a parlare di Bergur Þórisson e Pétur Jónsson e sono arrivati i concerti della consacrazione. Il duo ha ammesso di scrivere musica ispirandosi all’ambiente, a montagne innevate, mare e porto. Inoltre ‘Saga’ richiama alla mente la storia dei norreni, la creazione del primo parlamento europeo e gli esiti delle battaglie che si sono disputate sulla terra del fuoco e del ghiaccio. Una storia che si affida all’immaginazione di chi l’ascolta, senza alcun limite. Un approccio compositivo che va dal minimalismo elettronico al jazz d’avanguardia, dal post-rock alla neoclassica, senza mai smarrirsi tra arrangiamenti elaborati e lunghe litanie strumentali. L’immediatezza di ‘Ro’ e ‘Dypi’ contrasta quasi con la solenne chiusura di ‘Rok’ e ‘Land’ è stata proprio qui la bellezza dell’album. Gli Hugar sanno attrarre e mollare di colpo, trascinare e far riflettere, sia quando regalano melodie di altri tempi, sia quando si misurano su tempistiche piu’ lunghe e coraggiose.