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ICELAND AIRWAVES 2019 FRIDAY

Mi chiedo come si possa descrivere a parole, anche semplicemente avere la presunzione di narrare così tanti fatti in una sola giornata, un Venerdì di questo tipo. Di sicuro il giorno più avvincente di tutto il festival. Un giorno in cui abbiamo potuto godere di oltre dodici ore di musica strepitosa. Ad inaugurare le danze è stata girl in red al Kex. Marie Ulven Ringheim è una dolcissima ragazza norvegese che col singolo ‘I Wanna Be Your Girlfriend’ ha ottenuto qualcosa come trenta milioni di streams su Spotify e con i suoi modi ed una voce, al cospetto della quale non è possibile rimanere indifferenti, ha conquistato i ragazzi presenti all’ostello, in cerca di qualcosa di caldo, visto il tempo bruttissimo che c’era fuori. Allo Slippbarinn si sono susseguiti Matthildur e Agent Fresco. Questi ultimi hanno presentato un pezzo nuovo ma la scaletta è stata sostanzialmente invariata rispetto all’edizione precedente. Attendiamo con ansia il successore di ‘Destrier’ perché è raro trovare in circolazione una band di questo tasso tecnico in ogni singolo componente. Arnór Dan Arnarson è un frontman capace di regalare emozioni in quantità industriale tra scream e falsetto, Þórarinn Guðnason un chitarrista in grado di passare dal prog metal all’alternative rock in un batter d’occhio e la sezione ritmica, formata dal bassista Vignir Rafn Hilmarsson e dal drummer Hrafnkell Örn “Keli” Guðjónsson, non teme confronto alcuno. Groove pazzesco, energia, melodie accattivanti e capacità di trascinare il pubblico anche su un palco di tre metri per tre. Mentre il cielo di Reykjavík annunciava tempesta in arrivo, alcune luci sono arrivate dalla Nordic House (Nising, Jökull Logi e Vio), dal Kornhlaðan (Johanna Elisa) e dal Kex Hostel (Sunna Fridjons). Come non presenziare però all’ennesimo set avvincente di Sóley presso la Lucky Records ed al concerto dei Hrím al Canopy. La delusione per l’annullamento dei Just Mustard, quasi tutti i voli sono stati cancellati tra Venerdì e Sabato e ciò ha impedito agli strumenti della band di arrivare in tempo, è stata compensata da quello che è avvenuto alla Fríkirkjan ed al Reykjavík Art Museum. Nel primo caso la stella luminosa tra le panche della chiesa di fronte alla City Hall è stata Siv Jakobsen. L’artista norvegese è balzata alla mia attenzione fin dall’esordio ‘The Lingering’ ma è con il seguente ‘The Nordic Mellow’ che è riuscita a conquistare la critica con la sua voce spettrale e delicata ed un songwriting unico in costante bilico tra indie rock, pop e folk. Uno spettacolo pure i pezzi di ‘Varða’ degli Hugar in un contesto atipico e solitamente non funzionale a musica di certo tipo. Al contrario Pétur Jónsson e Bergur Þórisson sono cresciuti tantissimo negli ultimi due anni e adesso la loro proposta è pronta per qualsiasi tipo di palcoscenico. Il tempo di trasferirsi al Reykjavík Art Museum e Anna Lotterud, conosciuta come Anna Of The North, ha sfoderato i pezzi di ‘Dream Girl’ mostrando un gran fisico ed una voce impeccabile. Il suo electropop è morbido e avvolgente e la recente collaborazione con Tyler, The Creator le ha aperto mercati inaspettati. C’era grande attesa per i Mammút, non solo per la spaventosa performance dell’anno scorso ma perché ‘Forever On Your Mind’ ha anticipato la release del nuovo album e perché Kata è incinta e il suo stato piuttosto avanzato. Prima del concerto ho intervistato la band e mi sono raccomandato di fare attenzione ma è come se non mi avesse ascoltato. Fin dal primo istante si è mossa come un demone e pezzi mitici come ‘Salt’, ‘Breathe Into Me’ e ‘Pray In Air’ sono stati gridati a squarciagola quasi fossero inni sciamanici e la chiusura del set, marcato a fuoco dal basso gigantesco di Vilborg Ása Dýradóttir, con ‘The Moon Will Never Turn On Me’ e ‘Kinder Versions’ ha innalzato pericolosamente la pressione all’interno del museo. Mentre Sunna, ex vocalist dei Bloodgroup che ha appena pubblicato il magnifico mini ‘Art Of History’, metteva in mostra il suo talento all’Hressingarskálinn ed i Broen, norvegesi capaci di miscelare jazz, indie rock e pop come niente fosse, si davano da fare al Gaukurinn, sempre al Listasafn stava per venire giù il mondo. Che gli Hatari siano attualmente la band più importante in Islanda ci sono pochi dubbi. Che la loro crescita sia stata esponenziale e al di sopra di qualsiasi aspettativa pure. Ci sono pochi dubbi anche sul fatto che Klemens Nikulásson Hannigan e Matthías Tryggvi Haraldsson siano dei formidabili attori e che Einar Hrafn Stefánsson non sia solo un batterista. Di sicuro la tensione che si percepiva prima del Mission Statement metteva paura. Tra BDSM e politica, invettive bizzarre e coreografie curate alla perfezione, volumi assordanti e fuochi d’artificio, l’anti-capitalistic techno-punk del trio ha fatto letteralmente impazzire i presenti. La fila fuori dal museo arrivava a Laugavegur e l’eco della musica industriale che proveniva dall’interno si percepiva in tutto il centro città. Al ritmo di ‘Ódýr’, ‘Spillingardans’ e ‘Tortimandi’ sono saltate varie teste, l’ultimo singolo ‘Klámstrákur’ è stato accolto con un fragore assordante, al pari di ‘X’ e di ‘Klefi/Samed’, che ha visto la presenza on stage di Bashar Murad. È evidente che di fronte a tanto clamore, il mini ‘Neysluvara’ non può più essere sufficiente e di conseguenza aspettiamo un full lenght che ponga determinate e rigide regole pure sul mercato. Inutile aggiungere che ‘Hatrið Mun Sigra’, singolo che ha sancito la vittoria morale degli Hatari, con tanto di bandiera della Palestina mostrata durante la premiazione, all’Eurovision Song Contest di Tel Aviv, ha scatenato il putiferio a ridosso delle transenne. Sfido chiunque a non ammettere che si tratta di un regime totalitario e dissoluto dal quale è impossibile prescindere. Per chi volesse fare le ore piccole la scelta era enorme. Árstíðir al Dillon, GDRN al Gamla Bíó e Self Esteem al Kex Hostel. Il sottoscritto ha preferito dedicarsi alla dance, prima con Booka Shade e poi con Hausar, intramezzando con un bel po' di sana violenza metalcore e gli Une Misère. Il giorno dopo all’Hard Rock Cafè raccattavano ancora pezzi umani.