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MASSIVE ATTACK

Stories

I Massive Attack si sono sempre mossi a miglia di distanza da convenzioni e restrizioni e hanno dettato le proprie regole. Regole fatte di suoni e di tempi, perché i dischi (e la magnificenza di quei dischi è insita nelle note che li popolano) sono - comunque - gemme di bellezza pura e ogni volta sono stati partoriti con una frequenza, che ha incrementato il lasso temporale che ha intervallato due release successive, e solo allorquando la formazione di Bristol ha sentito di dover condividere la propria visione musicale. Cinque lavori estesi in ventidue anni di vita sono chiaramente sintomatici di quanto appena affermato, ma il valore sommo di tali opere rimarrà immutato nei secoli. A partire dall’album con cui Robert “3D” Del Naja, Grant “Daddy G” Marshall e Andy “Mushroom” Vowles, reduci dall’esperienza The Wild Bunch e forti del supporto di Neneh Cherry, esordirono nel 1991, ovvero ‘Blue Lines’, che permise loro di definire il verbo trip hop modellato partendo da materie prime elettroniche downtempo, soul, reggae e hip hop rafforzate da una produzione intesa come forma creativa, sample, arrangiamenti orchestrali e una varietà di soluzioni vocali affidate a numerosi ospiti, tra cui Shara Nelson, Horace Andy e Tricky. Nel 1994 vede la luce ‘Protection’, che porta alla collaborazione con Tracey Thorn di Everything But The Girl e che li catapulta nell’olimpo grazie a una sequenza di canzoni (compresa la cover di ‘Light My Fire’ di The Doors) scolpite tuttora nella storia (si pensi alla title track o a ‘Karmacoma’) e con cui lambiscono territori compositivi più marcatamente elettronici, sebbene sempre arricchiti da grandiose atmosfere e con la significativa addizione di sezioni di archi. L’anno successivo i Massive Attack scelgono di affidare i brani di ‘Protection’ alle sapienti mani di Mad Professor e il risultato lo si può ascoltare in ‘No Protection’, otto remix virati in chiave dub non lineare e che sottolineano dove risiedano le loro radici sonore. Con ‘Mezzanine’ (1998) il gruppo britannico intraprende un ulteriore e convincente percorso orientato a suoni caratterizzati da una evidente molteplicità strumentale (in primis i riff di chitarra) e con un mood plumbeo ambientale accentuato e dove non mancano picchi assoluti (ad esempio ‘Teardrop’, cantata da Elizabeth Fraser di Cocteau Twin), ma traccia anche una linea di demarcazione, poiché rende palesi i problemi di relazioni interpersonali tra i membri della band, acuitisi con il trascorrere degli anni (a tal punto che spesso si trovavano a lavorare gli uni separatamente dagli altri) e che culminano nel 1999 con la dipartita di Andy Vowles, seguito da Grant Marshall nel 2001. ‘100th Window’ (2003) vede quindi il solo Robert Del Naja alla composizione, ma risulta impreziosito dalla presenza di Sinéad O’Connor alla voce; il sound assume connotati maggiormente filmici, concettuali, universali e sperimentali, conservando pur sempre i distintivi tratti nebbiosi e oscuri e, a dispetto di una non facile accessibilità, rivela - a distanza di tempo - potenzialità espressive immense. I tour che seguono l’uscita del disco segnano il rientro di Grant Marshall, poi coinvolto nella realizzazione del nuovo ‘Heligoland’, rilasciato pochi mesi or sono e che offre un lessico più organico e “soul elettronico”, ammorbato da ambientazioni intimiste, punto di incontro e fusione ideale tra la musica “nera” e quella “bianca”, sebbene alla resa dei conti presenti caratteristiche più convenzionali e brani meno sperimentali rispetto al passato. A ‘Heligoland’ hanno partecipato, nel ruolo di cantanti, Martina Topley-Bird, Hope Sandoval, Guy Garvey (Elbow), Damon Albarn (Blur e Gorillaz) e Tunde Adebimpe (TV On The Radio), oltre all’immancabile Horace Andy. La ricerca del suono, che non è obbligatoriamente originale per potersi poi dichiarare tale, ma è originale per codice genetico, è il risultato di un’alchimia che nasce dalla sfida, dal desiderio di formulare idee, che diventano note, che passano attraverso una prospettiva “open mind” e che si portano appresso la storia di quei generi che hanno introdotto i concetti di collaborazione, aggregazione e mescolanza, si pensi al reggae, all’hip hop, al kraut rock, al post punk, all’elettronica e alla new wave e alle culture del do it yourself e del sound system. C’è poi il dovere, tipico di tutti i grandissimi, di non ripetersi mai e che nelle mani dei Massive Attack è un qualcosa che in principio potrebbe anche essere non così amichevole per le orecchie degli ascoltatori, ma che loro sanno rendere amabilmente pop. Infinitamente immersi nell’eternità dell’arte.

Words

Approfondiamo ora con i Massive Attack alcune tematiche, a partire da quella inerente i lunghi tempi di attesa tra un disco e il successivo, come accaduto per il nuovo ‘Heligoland’...
Il 2003 non dobbiamo contarlo, nel 2004 e nel 2005 abbiamo girato il mondo in tour e nel 2006 abbiamo rilasciato ‘Collected’ (il nostro Best Of), mentre nel 2007 abbiamo messo in piedi spettacoli per raccogliere fondi per la Hoping Foundation e per i bimbi palestinesi. Nel 2008 c’è stato il Meltdown Festival, che abbiamo curato personalmente. Poi siamo stati impegnati per creare degli artwork, a scrivere brani per colonne sonore e a occuparci delle nostre famiglie. Il disco era già finito da un pezzo, ma quando siamo rientrati dall’ultimo tour abbiamo sentito, dentro di noi, che lo dovevamo cambiare; ci siamo limitati ad analizzare i brani com’erano e abbiamo deciso di ripartire da capo e ci siamo messi a lavorare per otto/nove mesi. Se sommi tutto ciò vedi che fa sette anni...
Altra peculiarità manifestatasi in tutti i dischi è stata la scelta di collaborare con molti e diversi (oltre che bravissimi) vocalist...
Abbiamo sempre collaborato con tante persone, che entravano in studio e prendevano in mano il microfono e iniziavano a cantare, un po’ come nel reggae e nell’hip hop. Tutti quei dischi reggae con quattro differenti versioni dello stesso pezzo cantato da quattro cantati diversi; questo è stato il modello a cui ci siamo ispirati, oltre che il nostro modo di lavorare, anche perché tutto il processo creativo è abbastanza casuale. Scrivere un pezzo può aver a che fare con il ri-programmare, può essere un loop, un’idea nella nostra testa, una linea di basso o un beat. Ogni brano fa storia a sé e abbiamo composto così tante canzoni (comprese quelle mai pubblicate e che potrebbero un giorno vedere la luce sotto qualche forma) e per ciascuna di esse parlerei di un’esperienza unica. Non c’è una modalità di scelta del cantante, dipende dalla persona e dal brano, dipende da cos’era la musica quando lo abbiamo contattato, quanto l’idea di partenza era stata già sviluppata, ma non c’è mai un solo modo in cui tali collaborazioni sono nate. Prendi ad esempio quando, in passato, abbiamo lavorato con Liz Fraser e Tracey Thorn, si sono create dinamiche completamente differenti. A volte è molto difficile trovare il processo migliore. Di certo non ci mettiamo a tavolino a scrivere una lista di nomi. A volte capita che la prima volta che collaboriamo con qualcuno la cosa non funzioni affatto e così ci riproviamo in seguito o magari capita come con Horace Andy; lo ammiravamo tantissimo ed era un nostro desiderio esplicito averlo dietro al microfono e dal disco di debutto ci ha sempre affiancati. A volte pensiamo che un pezzo potrebbe andare bene per una voce e a volte accade il viceversa o a volte arriva qualcuno che si “impadronisce” di una canzone! A volte accade semplicemente che incontriamo persone con cui sentiamo di dover collaborare e lo facciamo, come con Mike Patton, con cui abbiamo composto dei pezzi alcuni anni fa, ma che non sono ancora stati completati...
La molteplicità di voci utilizzate può creare problemi durante i concerti...
Non ci siamo neppure mai sognati di poter portare con noi per i tour tutti i cantanti utilizzati nel corso degli anni, però saltuariamente capita che riusciamo ad aggiungerne qualcuno per certe date. In determinate occasioni, durante i concerti, per alcuni brani non utilizziamo le parti vocali se non c’è il cantante o la cantante che aveva inciso il pezzo. Capisco che magari gli spettatori possano rimanere un po’ insoddisfatti nel non sentire la voce che c’era sul disco, però bisogna anche considerare che il concerto è un’esperienza di quasi due ore e ciò che cerchiamo di veicolare in quel lasso di tempo è parte dei suoni, parte delle personalità e parte delle idee che ci sono negli album, ma trasposti in un contesto live e quindi giustamente diversi.
Torniamo ora alle origini, prima che Massive Attack esistessero in quanto tali c’era The Wild Bunch...
Non puoi immaginare cinque persone (Tricky e Nellee Hooper, oltre ai tre che diedero poi vita alla band, ndr) più differenti per come apparivano, per il background, per le etnie e per i gusti musicali. Però queste cose rendevano il progetto estremamente interessante. Eravamo molto egoisti e “single-minded”. C’erano dispute e liti in continuazione e questo si è trasmesso anche nei Massive Attack, sino a che si è arrivati alla separazione da Mushroom, nel momento in cui le dinamiche tra noi tre erano del tutto devastate. Comunque con The Wild Bunch eravamo soliti suonare qualsiasi tipo di musica; new wave, reggae, funk, soul, garage o Detroit techno. Avevamo ereditato il concetto di sound system dalla musica giamaicana e all’epoca la scena si stava spostando dai concerti ai club e alle serate nei capannoni. E così quasi tutte le sere proponevamo la nostra musica e questo spirito ce lo siamo portati appresso negli anni successivi. Il punto di partenza era lo stesso dell’hip hop e del lavoro dei DJ ed è stato l’hip hop che ci ha spinti a entrare in studio per registrare i pezzi, con un’infinità di basi campionate. Poi siamo passati dall’andare in giro con il sound system a essere una band, secondo una progressione naturale, perché all’inizio con Massive Attack ci limitavamo a proporre ciò che facevamo in studio, poi abbiamo aggiunto i cantanti, poi gli strumenti e così siamo diventati un gruppo.
Forse è il caso di approfondire quali suoni scorrevano all’epoca nelle vostre vene...
A Bristol c’era una fervente scena punk e questo fu un input fondamentale, comprese le varianti che seppe creare sin dall’inizio, il post punk innanzitutto, che segnò un periodo di transizione e crescita per la musica tutta. C’erano suoni interessanti che provenivano da entrambe le sponde dell’Atlantico. Poi c’era il reggae. E poi la musica elettronica iniziò a contaminare sempre più forme sonore. In città avevamo DJ che suonavano qualsiasi genere di musica, dal funk al soul al reggae, e poi c’erano i club dove proponevano blues e tutto ciò ci è rimasto dentro. Ma quando arrivò l’hip hop cambiò ogni cosa!
Da ultimo un riferimento a un suono che appassiona in maniera viscerale tanto il sottoscritto quanto i Massive Attack, ovvero il dubstep...
In questo preciso momento storico siamo fanatici del dubstep (condivido appieno, ndr). Ricordi quanto abbiamo fatto ai tempi di ‘No Protection’ con Mad Professor? Bene, stiamo pensando a qualcosa di simile con Burial, che dovrebbe remixare molti brani del nostro nuovo disco, offrendo così una interpretazione diversa dei pezzi, in chiave dubstep. Apprezziamo molto ciò che ha prodotto sinora nei suoi album, è davvero incredibile per come tratta i layer, per le ritmiche e i soundscape. Il dubstep è qualcosa di meraviglioso, c’è un sacco di gente brava là fuori, come Kode9 ad esempio, e noi vogliamo esserne parte.