L'amore non vive qui. Non certo in quel regno di plastica e superficialità che è la California. Lo sanno bene i Lionheart che danno alle stampe un quarto full lenght da stropicciarsi gli occhi. Se in passato la band di Oakland si era distinta per un approccio totalmente straightedge con grandi riferimenti a Hatebreed e Madball stavolta percepiamo uno sforzo in più. Il legame con le proprie radici è sempre solidissimo ma qualche passo in avanti è stato compiuto. A partire dal suono delle chitarre che è decisamente live oriented e mi ha ricordato subito quello dei Terror. Inoltre il titolo si ispira ad un classico della scena r&b e Motown giusto per creare un contrasto tra i valori di quei musicisti e del pubblico che li ascoltava e quanto invece si cela dietro alla scena hardcore. Inizia l'album e 'Pain', scusate il gioco di parole, fa subito capire che l'ascolto sarà doloroso e impegnativo fisicamente. Rob Watson si mangia il microfono ed il guitar work di Evan Krejci e Rob McCarthy è imperioso con Cody Fuentes della Rapture Recordings che si deve essere divertito come un matto ad alzare il volume e portare il livello delle distorsioni al di sopra di qualunque immaginazione. 'Keep Talkin' e 'Witness' sono pezzi che trasudano di sacrificio e determinazione, anthem scritti per chi desidera dare una svolta alla propria esistenza. 'Bury Me' e 'Lock Jaw' appesantiscono l'atmosfera e ci regalano dei breakdown da fare impallidire buona parte delle band metalcore di oggi. Infine 'Goin' Back To The Bay', un minuto e diciotto secondi, è quel punk che ti fa desiderare di ripartire da capo e prendere nuove mazzate sulla testa.