"Our Own Reality" e lo specchio di rame che cattura lo sguardo dell"uomo. Un"attrazione morbosa per quella che è la conclusione dei sensi e l"ignobile immediatezza del trasecolare degli eventi. Il peso dei Paradise Lost sulla scena gothic è ancora talmente importante che non voglio tentare di interpretare un titolo come ‘In Requiem’. La prima impressione che si ottiene ascoltando il nuovo album degli inglesi è che può essere facilmente letto come il secondo lato della precedente release. Luce e salvezza, dolore e oscurità, pentimento e quiete, tempesta e morte. Nulla pare cambiato e la determinazione con cui si era fatto un passo indietro recuperando impulsi eterogenei cari a masterpiece quali ‘Icon’ e ‘Draconian Times’ è assolutamente intatta (‘Never For The Damned’). In definitiva i cori di ‘The Enemy’ e ‘Fallen Children’ sarebbero bastati a rendere felici i loro seguaci ma cercando animosamente tra anfratti polverosi e lugubri ritagli spazio-temporali Nick Holmes e Greg Mackintosh ci regalano numerose perle capaci di inserirsi di diritto nella storia come ‘Praise Lamented Shade’, un’imperiosa title track e ‘Sedative God’ anello di congiunzione tra ‘One Second’ e oggi. Laddove l"omonimo album viveva di aperture melodiche ariose e spiritualità intinta nel sangue, "In Requiem" decentra il tutto in un vortice nero, insalubre e claustrofobico. Un monumento al sogno gotico del paradiso perduto che non svanirà mai.