Con scadenza ormai fissa, quasi fosse una rata del muto della casa da dover pagare, arriva puntuale il nuovo disco dei Buckcherry. La band di Josh Todd si è giustamente costruita un sound definito nel tempo, attraverso la realizzazione di lavori solidi e ben organizzati, dove si è dato sempre spazio alla musica diretta e senza fronzoli. Insomma, in poche parole con gli americani il rock n roll vero e proprio ha trovato la sua reale confort zone e tutto questo ha fatto in modo che si proseguisse intelligentemente sulla strada tracciata da gente come Aerosmith, Rolling Stones, Guns e altri grandi nomi del genere. “Hellbound”, diciamolo subito, non toglie ma non aggiunge nulla alla sterminata discografia di Todd e compagni che anche questa volta hanno fatto centro con un album pieno di ottimi brani e suonato come ci si aspetta da gente come loro. Rispetto agli esordi si nota una minore aggressività e una maggiore cura, invece, per gli arrangiamenti, anche grazie alla figura prepotente di Marti Frederiksen, chiamato in sede di produzione e che ha la capacità di trasformare in oro tutto ciò che tocca. Ed allora ecco che ci troviamo dinnanzi a pezzi di grande impatto come la strepitosa title track, “Here I Come” e “Gun” che faranno sicuramente sfracelli in sede live. Todd canta, come al solito, in modo imponente e la band è una macchina costruita per correre ad alta velocità, nonostante gli innumerevoli cambi di line up a cui è stata sottoposta nel corso di questi anni. I Buckcherry, rispetto ai colleghi più giovani che stanno dando linfa e revival al rock tradizionale, hanno dalla loro una esperienza maggiore, ma soprattutto un’inclinazione a scrivere canzoni che rimangono in testa. Per essere chiari bisognerebbe dare un ascolto a un pezzo come “Junk”, in cui si fondono Aerosmith e Guns, ma dove sai benissimo che la paternità è solo dei Buckcherry. E’ una cosa che sembra difficile a farsi e a spiegarsi, ma nei confronti della quale questo gruppo si trova a suo completo agio. Lunga vita a Josh Todd.