Ai Deep Purple, giunti a questa fase della propria vita artistica, non interessa minimamente vendere dischi. Hanno alle spalle una carriera stratosferica, contorniata da capolavori che hanno fatto la storia del rock, tanto da essere considerati tra le più grandi band mai esistite. Ormai, con la settantina raggiunta, l’interesse che muove questa incredibile macchina di emozioni rimane il piacere di suonare insieme ed il gusto di scrivere musica in sintonia con quelle che sono le proprie attuali esigenze. Uno dei segreti di una rinascita che è iniziata nel 2013 con “Now What?” è rappresentata dalla presenza dello storico produttore canadese Bob Ezrin, famoso per i suoi lavori con i Pink Floyd, Kiss, Lou Reed e Jane’s Addiction. Con Ezrin la band ha ritrovato d’incanto la voglia di andare in studio e comporre con una classe che rimane ancora intatta, nonostante il passare degli anni. E’, altrettanto, chiaro che le canzoni durissime presenti in lavori come “Burn”, “In Rock” o “Machine Head” sono un lontanissimo ricordo, visto che la voce di Gillan è totalmente modificata, tanto da renderlo chiaramente un altro tipo di cantante. “Whoosh!”, dunque, parte con premesse ben solide ed alla fine dei conti dà l’idea di essere un buon album dove sono soprattutto gli ultimi arrivati, al secolo Steve Morse e Don Airey, a recitare il ruolo di protagonisti. Il primo rimane un chitarrista di una bravura pazzesca ed il suo solo in “Throw My Bones” è roba da ascoltare in loop perenne. L’ex tastierista di Ozzy, invece, come aveva fatto nei precedenti lavori è determinante nel creare i giusti intrecci sonori con il resto degli strumentisti, grazie ad una fantasia ed una visionarietà musicale fuori dal comune. In un contesto del genere, non mancano, comunque, pezzi dall’approccio facile come la solare, nonostante il titolo, “We’re All The Same In The Dark”, mentre “Nothing At All” riporta quasi ai Jethro Tull del secondo periodo degli anni settanta. “No Need To Shout”, invece, fa venire in mente il periodo di “Perfect Strangers”, a differenza di “Step By Step” che è introdotta dal potente suono dell’organo di Airey. In questo caso la canzone si mantiene cadenzata per poi dilatarsi da un punto di vista strumentale in sede di un ritornello che non è immediato come si potrebbe pensare. Ci sono anche episodi abbastanza retrò come il rock’n’roll di “What The What” ed altri più da cavalcata, grazie al loro incedere prepotente (“The Long Way Around”). Non manca uno strumentale di qualità come “And The Address” che riporta con la memoria ai Deep Purple che furono, anche se alla fine Gillan e soci hanno un loro perché pure nel 2020. La loro musica non sarà scintillante e fiammeggiante come quella realizzata quaranta anni fa, ma rimane una testimonianza concreta di classe genuina che difficilmente sarà riscontrabile tra i propri colleghi più giovani quando avranno raggiunto - si spera - la loro età.