-Core
Fågelle
Svezia
Pubblicato il 25/06/2019 da Lorenzo Becciani

Qual è il tuo background musicale? Hai collaborato solo con Mira Asmaa in passato oppure sei stata attiva anche con altri progetti?
Scrivo canzoni fin da quando ero adolescente. Ho suonato per la prima volta da sola e poi anche in una band. Con il passare del tempo mi sono sentita limitata dal tipico format pop e quando avevo diciannove anni sono stata invitata ad un workshop con il sassofonista Mats Gustafsson e la sua free jazz band The Thing. Quell’evento ha cambiato la mia vita. Sapevo che avrei voluto sperimentare di più e dare ascolto ai suoni che avevo intorno. Ho comprato un po' di pedali e noise box e le ho posizionate sul pavimento del mio salotto. Da lì in poi Fågelle è cresciuto come progetto. L’obiettivo era combinare l’impulsività del free jazz con le emozioni e la malinconia della musica indie. Ho studiato sound design all’Accademia di Musica e Drammaturgia di Göteborg ed il mio ultimo anno l’ho passato all’UDK di Berlino. In quel periodo ho fatto parte di diversi progetti collaborativi, riguardanti più o meno i miei studi. Di recente ho scritto un pezzo con il bassista  Andreas Dzialocha e collaborato con la regista e vj  Beate Kunath. È lei che si occupa delle visual dei miei concerti ed è fantastico avere una persona che condivide il tuo pensiero.
 
Quando hai scoperto la tua voce?
La scopro e la perdo in maniera costante. Credo sia una parte essenziale del processo. Ho sempre amato cantare ma crescendo sono diventata sempre più consapevole di come la voce si debba conformare a quello che desideri mostrare. Negli ultimi anni ci ho lavorato molto, cercando un modo differente di cantare, più o meno come parlo. Lavorare alla voce è come lavorare alla mente, è un processo profondamente fisico e devi usare pensieri ed emozioni per controllarlo.

Quali sono le tue influenze principali in termini di musica e arte?
È un mix intricato di musica indie (Radiohead, Bon Iver), stranezze noise (Death Grips), artisti con un approccio poetico interessante (Tom Waits, Jenny Hval, Leonard Cohen), cantastorie (Janet Cardiff) e scrittori (Thomas Bernhard, Sara Stridsberg). In generale cerco di essere il più aperta possibile e mettere insieme i pezzi della storia della musica cercando di capire come si muovono le tendenze culturali. Attualmente sono tornata indietro alla fase dei film indipendenti canadesi.

E invece il tuo approccio al pop?
Amo la musica pop. È un mestiere con un’eredità così grande. È questo il motivo per cui sono così affascinata dagli artisti sperimentali che maneggiano la musica pop senza abbandonarla. Quando sono caduta nel mondo dell’improvvisazione non sono riuscita a combinare il songwriting e le strutture pop per molti anni. Non sapevo come fare perché le percepivo in conflitto. Lavorando con Henryk Lipp ho capito come trovare spazio ad entrambe e ho ripreso a comporre in tale direzione. Adesso vedo il pop come un senso di struttura ed uno scheletro guida per gli arrangiamenti, più che qualcosa che mi debba spingere a prendere decisioni di un certo tipo.

Puoi darci qualche dettaglio in più sul songwriting?
Spesso è al pianoforte, a volte con la chitarra, in una stanza preferibilmente a porta chiusa. Scrivo in continuazione testi e prendo qualche frammento cercando di metterli insieme, a seconda di quello che penso in quel momento. A volte non mi piace per niente, altre volte funziona subito. Non perché sia meglio, magari è semplicemente diverso. Quando ho qualcosa di concreto, io e Henryk ci giriamo delle idee a vicenda finché non abbiamo una solida base per il pezzo.  
 
Quando hai iniziato a comporre le tracce del debutto?
Circa quattro anni fa. È stato un processo lungo.
 
Vuoi provare a recensire ‘Döda Flickan Rädda Rösten’ per noi?
Significa “Uccidi la ragazza, salva la voce” e parla di potere e assenza di potere.   In pratica di come il corpo umano viene ridotto ad un pezzo di carne e le donne, nell’industria musicale, vengono ridotte a voci. È una interpretazione del proclama “Kill the Indian, Save the man” che venne usato come slogan dalla scuola industriale indiana di Carlisle, negli Stati Uniti, alla fine del ‘800. L’intera idea della scuola e di altre come questa era strappare i giovani nativi americani dalle loro radici. Credo sia del tutto simile a come vengono trattate oggi le donne nell’industria musicale. Non importano le loro opinioni, non viene richiesta la loro presenza quando ci sono da prendere delle decisioni, contano solo voce e corpo. Dietro alle loro produzioni ci sono quasi esclusivamente uomini ed alla fine le donne vengono usate solo per attrarre il pubblico.

Come hai conosciuto Henryk Lipp? Quali erano i tuoi obiettivi in termini di produzione?
Quando ho iniziato a suonare sound design a Göteborg, ho realizzato che non c’era spazio per un progetto come Fågelle nella scuola e ho ascoltato il consiglio di uno degli insegnanti di rivolgermi a Henryk, un produttore molto noto ed un punto di riferimento per parecchi musicisti della città. Pensavo fosse una cosa di un giorno soltanto ma dopo avergli mostrato le mie canzoni siamo finiti a lavorare e comporre insieme. È una collaborazione sincera nella quale cerchiamo costantemente di tirare fuori il meglio dalle nostre idee. Il nostro obiettivo era registrare qualcosa di eccitante, nuova musica al confine tra il pop e la musica sperimentale.

Dove avete registrato? Avete utilizzato della strumentazione particolare?
L’album è un grande collage di diverse registrazioni avvenute in più luoghi. Il Buchla System è stato registrato all’Accademia di Musica di Göteborg, così come il loro Analog Four. Alcuni suoni sono stati catturati attraverso vari plugin e la mia pedaliera. ‘Det Kommer’ è stata quasi interamente registrata nella mia camera di Berlino con qualche noise box. Stessa cosa per il coro. Quasi tutte le parti vocali sono state registrate allo studio di Henryk, il Music A Matic, con un vecchio microfono U47. Alcuni field recordings sono della metropolitana di Mosca, di un supermercato nella Piazza Rossa, del traffico di Seestraße e S-bahn a Berlino ed il rumore degli uccelli di un parco di  Norrköping. I fuochi d’artificio alla fine di ‘Gränslös’ sono dei festeggiamenti della fine dell’anno di Berlino. Abbiamo posizionato due casse stereo sul balcone per catturarli.
 
Vivi ancora a Berlino? Quali sono le differenze principali con la Svezia?
Attualmente vivo a Göteborg. È difficile metterli a confronto perché Berlino è un punto focale per l’elettronica e il sound design. Non puoi immaginare quanti artisti ci sono ed il mio periodo trascorso a Berlino ha avuto un impatto fortissimo sulla mia carriera e sulla responsabilità di trovare una voce, parlare un linguaggio personale e difendere ognuna delle mie parole. È una sorta di compromesso inconscio che è molto presente lì. La città è selvaggia e senza regola e tante persone vi si recano per uno scopo. Non ho mai visto cose del genere da nessun’altra parte.  

C’è un concept preciso dietro a ‘Helvetesdagar’?
Direi un collage di cose che ho collezionato fino ad un certo punto. Pezzi di testo, melodie e field recordings. Le liriche ruotano attorno alle idee delle strutture di potere, dell’assenza di significato e della fragilità del tempo.

Sei bellissima e ricca di talento. Hai mai pensato di fare la modella o recitare?
Ahahaha no.

Qual è stato il tuo migliore concerto finora? Sei mai stata in Italia?
La scorsa estate ho suonato al Klangfestival di  Gallneukirchen, un villaggio vicino a Linz, in Austria. Il palco era costruito su una vecchia stazione dei vigili del fuoco ed era decorato in maniera stupenda. Il pubblico era totalmente concentrato sulla mia performance ed il sound eccellente. L’intera atmosfera è stata speciale. Siamo anche stati in un castello austriaco. Ho suonato al Verona Risuona Festival qualche anno fa ma spero di tornare nel vostro paese nel mio tour di Novembre.
 

Fågelle
From Svezia

Discography
Helvetesdagar - 2019