-Core
Il Vuoto Elettrico
Italia
Pubblicato il 24/04/2017 da Lorenzo Becciani

Come è nato il nome “Il Vuoto Elettrico”?
E’ nato partendo dal fatto che volevamo un nome in italiano che in qualche modo avesse una sua storia, non frutto della semplice immaginazione. Prendere a modello il titolo del secondo disco dei Six Minute War Madness (un punto di riferimento assoluto dell’underground italiano di fine anni ’90) è stata una scelta di cuore e un omaggio a una realtà tra le più brillanti (ma purtroppo anche snobbate dal grande pubblico) degli ultimi trent’anni di musica cantata in italiano.

Quali erano le vostre ambizioni quando avete formato la band? Quanto sono cambiati i vostri obiettivi adesso che ‘Traum’ è realtà?
Quando ci siamo formati abbiamo cercato di concentrare tutte le nostre esperienza passate (e spesso fallimentari) in questo progetto dicendo sottovoce: “O adesso o mai più”. Volevamo dire la nostra in un panorama musicale spesso intasato da proposte mediocri che riducono gli spazi e la visibilità di chi - al contrario - ha ambizioni artistiche e non semplicemente di “entertainment” e di soddisfazione personale.

‘Virale’ e ‘Traum’ sono due album sicuramente legati da un filo conduttore ma anche estremamente differenti. Quali sono a vostro parere gli aspetti che li distinguono maggiormente?
Le differenze maggiori sono a mio avviso legate alla struttura dei pezzi, agli arrangiamenti. Sotto questo punto di vista i due dischi sembrano appartenere a due band diverse, visto che in ‘Virale’ c’era molta più linearità sotto questo aspetto (ma anche più manierismo) mentre invece in ‘Traum’ tutto è più immediato e spartano e quindi più crudo e diretto. ‘Traum’ è un disco anche più “veloce” e tende a non cadere negli stereotipi musicali indie che – in qualche circostanza – abbiamo coltivato senza accorgercene nel precedente lavoro.

Il nuovo album è uscito tramite una collaborazione tra etichette. Pensate che questo sia un modo per combattere le difficoltà del mercato attuale?
No, non penso che questa sia la strada giusta. Semplicemente non penso che esista. La produzioni si autosostengono economicamente, i soldi provengono dai lavori “convenzionali” di ciascuno di noi. Suonare è un debito, punto. E’ come andare a sciare la domenica, si spende senza prospettiva di rientro. Si compra l’attrezzatura, l’abbonamento alle piste, si spende per il pranzo e il carburante. Si torna a casa la sera felici (forse). Fare musica è la stessa cosa. Si spende per registrare un disco, per promuoverlo, si spende per comprare gli strumenti musicali. “Invece di comprarmi un paio di sci nuovi all’anno mi compro una chitarra”. E’ come destinare le proprie risorse economiche a X piuttosto che a Y. Non dovrebbe essere così, bisognerebbe avere una “speranza di crescita professionale”. Ma siccome neppure “quelli davvero bravi” riescono a mettere insieme il pranzo con la cena figuriamoci tutti gli altri. Vuoto a perdere, insomma.

Pensate di rimanere indipendenti a vita oppure se arrivasse l’offerta giusta…
Questa è una domanda facile-facile. Non bisogna mai rispondere in assenza della situazione concreta alla quale ci si riferisce. Sarebbe grottesco proclamare “indipedenza” quando non c’è altra strada da percorrere. Sarebbe altrettanto inopportuno “sbavare” per un contratto major. Quello che dico è che i musicisti dovrebbero pensare solo a fare musica, il DIY alla lunga è logorante, distrae e riempie la testa di cose assurde di cui i musicisti non si dovrebbero occupare. Pratiche SIAE, bollettini, scegliere il font della grafica del disco, il colore dello sfondo delle foto promozionali e un milione di altre stronzate di cui si farebbe volentieri a meno. Chi dice che “è il bello di tenere tutto sotto controllo” dice una gran cazzata. Se ho scelto di fare rock ‘n roll e non il “grafic designer” piuttosto che “il burocrate” un motivo ci sarà. Spesso a rimetterci sono la musica, la preparazione dei live e i dettagli della produzione. I gruppi non riescono a uscire dall’underground non perché non ci sia qualità, ma perché per guadagnare in visibilità bisogna mettersi part-time con il lavoro (con cui ci si guadagna da vivere) per poter anche solo tentare di fare della musica la propria professione. Il risultato? Gettare la spugna è sempre l’ipotesi più concreta e più comoda per tutti e si finisce per abbracciare questa cosa come una naturale evoluzione della logica dei fatti. Sbagliato.

Quando avete iniziato a comporre i nuovi brani? Quanto tempo avete impiegato a completare il processo?
Abbiamo iniziato subito dopo aver dato alle stampe il precedente album “Virale”. Non abbiamo avuto un attimo di tregua nella preparazione dei pezzi e la stesura si è conclusa praticamente ad aprile/maggio dello scorso anno. Solo il pezzo conclusivo “Out/Door” è frutto di un lavoro successivo a questo periodo ed è terminato con la registrazione in studio “costruendo” le parti su sensazioni di theremin, chitarre molto lineari ma evocative e un basso ipnotico. A completamento abbiamo inserito il trilobit, un prototipo di riverbero a molla filtrato da una serie di effettistica per chitarra. E’ il nostro pezzo sperimentale ed era giusto “costruirlo” in studio piuttosto che in sala prove.

Dove si sono svolte le registrazioni? Avevate degli obiettivi precisi in termini di suoni e produzione?
Abbiamo registrato in provincia di Bergamo al “Dream Studio” di Bonate Sopra, studio di proprietà di Mauro Mazzola, uno dei nostri chitarristi. Detta così potrebbe sembrare che ci siamo presi tutto il tempo necessario per lavorare con calma ma non è stato così. Il grosso del lavoro si è sviluppato in soli due giorni per questioni di impegni di Xabier, ma alla fine non è stato un male: tutte le energie sono state canalizzate in un lasso di tempo molto breve. La prossima volta faremo con più calma, questo è certo. Dal punto di vista sonoro invece è stato tutto demandato alla guida di Xabier: suoni scarni, secchi e poco elaborati in fase di registrazione. Mentre in fase di mixaggio tutto si è fatto per evitare che il disco suonasse come una ripresa dal vivo. Inoltre si è cercato di attualizzare il suono, operazione certo non semplice. In ogni modo sono sempre dell’idea che se un disco deve suonare “live” allora è meglio evitare di registrare un disco. Meglio registrare un concerto vero e proprio.

Come avete conosciuto Xabier Iriondo? Quanto c’è di lui nel nuovo album?
Lo abbiamo contattato tramite il nostro ufficio stampa, poi lo abbiamo incontrato a Milano e gli abbiamo parlato a lungo. La cosa che lo ha convinto a lavorare con noi è stato il progetto complessivo del disco, il concept album. Inoltre ha valutato positivamente il lavoro del precedente disco registrato con Fabio Magistrali, suo compagno di avventura negli A Short Apnea e nei Six Minute War Madness nonché produttore dei primi tre dischi in italiano degli Afterhours. Si è convinto che si poteva lavorare bene e in maniera proficua, dando alle stampe qualcosa di estremamente interessante. Il lavoro si è sviluppato nell’arco di due pre-produzioni durante le quali si è parlato a fondo di arrangiamenti e suoni. Un lavoro preparatorio che è durato quasi sei mesi e che ha portato 'Traum' a diventare un disco a mio avviso profondo, destinato a durare nel tempo di chi lo ascolterà con attenzione. Xabier ci ha dato una nuova consapevolezza, nuove idee e un modo di lavorare differente rispetto a ciò che avevamo fatto in passato.

Provate a recensire ‘Lame In Soffitta’ e ‘Il Giardino Dei Segreti’ per i nostri lettori…
“Lame In Soffitta” parte inveendo contro un amore distrutto ma subito dopo si trasforma in una forma di autoaccusa per tutto ciò che è successo, pur mantenendo una sensazione di arringa ben precisa. E’ il brano più pop-oriented a livello di sonorità (qualcuno dice addirittura pseudo-ballabile) ma ha un arrangiamento tra i meno lineari in assoluto, quasi a contrasto con la facilità di ascolto. Ci trovo qualcosa di soffocante non solo nel testo, anche nelle chitarre. “Il Giardino Dei Segreti” è il secondo pezzo che parla d’amore. E’ in qualche modo collegato a “Lame In Soffitta”... Lì dentro c’è il disperato ed estremo tentativo di rimettere una relazione sui binari giusti, c’è la consapevolezza che il tempo ha minato le certezze e si sono fatti avanti i “rigori dell’amore”. Musicalmente è composto da tre fasi: una estremamente veloce e ritmica, una seconda quasi sospesa nel vuoto e una terza perfino liberatoria, ad indicare la via d’uscita. Dal punto di vista vocale è parecchio impegnativa, con degli incastri metrici non sempre automatici ma che sono indispensabili alla narrazione della vicenda.

Quali sono gli altri passaggi chiave dell’album?
‘In/Door’ e ‘Out/Door’ (il pezzo di apertura e di chiusura del disco) sono determinanti per la comprensione complessiva del disco. Musicalmente sono i pezzi più obliqui del disco, anomali per le sonorità. ‘In/Door’ è inquieta e nel passaggio finale rende l’idea di una persona che nasce, come se uscisse da un tunnel di dolore. ‘Out/door’ è la dipartita del corpo, la morte è simboleggiata da una tensione musicale perenne e da una simbologia molto accentuata. Una volta terminato il pezzo finale c’è una specie di “chiusura del cerchio” che dovrebbe riportare l’ascoltatore a ripartire da capo con ‘In/Door’.

Ci sono delle band in particolare con cui avete legato in questi anni oppure che ritenete davvero valide?
Moltissime. Con alcune di queste abbiamo suonato solo una volta ma c’è stima reciproca, anche a distanza. Con altre abbiamo rapporti più stretti e abbiamo suonato in più di un’occasione insieme. Faccio qualche nome: i milanesi ZiDima (capaci di gettare il cuore sul palco in tutte le occasioni), i bresciani Il Sistema di Mel (in costante crescita dal punto di vista artistico), i vicentini Vaio Aspis (divertenti, coinvolgenti, sempre pronti a suonare a tutto volume), i ferraresi Devocka (tra i migliori in assoluto in Italia nel loro ambito) e i veneziani Trompe Le Monde (giovani ma con un talento assoluto nel loro personale modo di intendere il math rock)

Chi si è occupato dell’artwork? Ha un significato specifico?
La copertina è stata scelta tra migliaia di fotografie e quindi acquistata. Ci è sembrata perfetta per legare il tema del disco alle sue sonorità oniriche e disturbanti. L’artwork è stato curato da me e da un amico fidato (Giuliano Soliman), mentre le foto del booklet sono di un fotografo molto in gamba (Emanuele Biava) che ci ha seguito fino a Torino, dove abbiamo realizzato una sessione fotografica all’interno di una casa molto particolare, pregna di storia e riferimenti architettonici. Ciascuno di noi è fotografato separatamente in una stanza che – a sua volta – rappresenta una stagione della vita legata al passato e al futuro. Il collegamento visivo è quindi immediato e diretto, volevamo che tutto fosse connesso.

Quali sono i vostri piani dal vivo per i prossimi mesi? Finora qual è stato il vostro migliore concerto?
Abbiamo tre/quattro mesi densi di concerti, poi ci aspetta l’estate dove speriamo di fare qualche Festival di una certa importanza. Suonare dal vivo è importante per noi e fortunatamente abbiamo una buona continuità. Mi ricordo di un concerto in particolare, di supporto agli A Toys Orchestra dove siamo andati particolarmente bene e dove alla fine ho gettato in aria persino le scarpe. Ma possiamo fare ancora di meglio…

(parole di Paolo Topa)

 

Il Vuoto Elettrico
From Italia

Discography
Virale (2015)
Traum (2017)