-Core
Predarubia
Italia
Pubblicato il 17/07/2018 da Lorenzo Becciani

Come nascono i Predarubia? Quali obiettivi vi eravate posti al momento di formare la band?
Nascono dall'amore per il rock, dalla voglia di suonarlo. Per me è stato tornare a fare musica dopo tredici anni di assoluto abbandono, in cui non ho cantato nemmeno sotto la doccia e non ho ascoltato niente. Non avevamo obiettivi se non quello di essere una band vera, un’autentica rock band. Quella che si costruisce suonando insieme, prova dopo prova, canzone dopo canzone.

Quali sono le vostre principali influenze? Il vostro sound sembra molto "americano", ci sono anche gruppi italiani che hanno contribuito alla vostra formazione come musicisti?
Paradossalmente il nostro sound suona molto "americano" perché siamo principalmente influenzati da ciò che arriva da oltre manica. Ma non è neanche tanto un paradosso se si pensa che buona parte dell’America ha scoperto il blues ed altre forme che nascono in quel continente grazie alla “british invasion”.

Quando avete iniziato a comporre il materiale per 'Somewhere Boulevard'? É stato un processo complicato?
Il primo brano che ho scritto è stato ‘Somewhere Baby’ e risale a quasi un anno prima di essere  andati in studio; quando l'ho portato in stanza ho sentito che non eravamo ancora pronti ed ho aspettato. Dopo quasi un anno ho sentito che finalmente lo eravamo ed ho ripreso in mano la chitarra ed i pezzi erano tutti lì ad attendermi. Sono state scritte in pochi giorni, in un tempo che è molto vicino a quello effettivo della canzone. Per dire ho buttato giù ‘A Girl Named Hope’ in una unica stesura, una sola take. Ho premuto stop sul registratore e mi sembrava ci fosse ancora qualcosa ho riacceso ed ho scritto ‘Rip’. Le canzoni in stanza sono state arrangiate e provate al massimo per trenta ore totali, le abbiamo suonate qualche volta live ed erano pronte per lo studio

Avevate dei template per la produzione? Vi siete ispirati a qualche album in particolare?
No, chiaramente alle spalle avevamo un bel pò di dischi ascoltati, molte canzoni riprese da quei dischi e suonate fino ad assorbirne il senso. Siamo andati in studio convinti di fare un demo, in cui già mettere idee e forma alle canzoni. Ci sono piccolissimi esempi di "produzione" all'interno del disco, che vanno dalle parti corali al piano rovesciato che introduce ‘The Waiting Song’. Dall'intro di ‘Not In My Name’ all'outro di ‘One Day’ alla radio di ‘Yesterday’. Ma per lo più c'è l'essenza delle canzoni. Quel demo poi è diventato un disco vero. L'etichetta ha tenuto le riprese originali ritenendole di gran valore ed ha affidato il nuovo mix e mastering ad Alex Marton.

Dove porta 'Somewhere Boulevard'?
Onestamente non lo sappiamo ed è forse proprio espresso nel titolo. L'idea di importanza che diamo alle canzoni, della loro forza di cambiare lo stato delle cose rappresentato da quel “Boulevard” unito a non prendersi troppo sul serio a togliere tutta quella importanza che "Somewhere" da. In questo c'è la nostra essenza, un rock scarno ed essenziale che porta energia e la voglia di movimento, con dentro qualcosa di più profondo.

Chi ha realizzato l'artwork? Gli avete fornito delle indicazioni precise?
Ho realizzato io l'artwork perché non avrei saputo spiegare ciò che il disco contiene senza realizzare visivamente qualcosa. Come per il demo quei bozzetti sono diventati il disco

Il video di Simone Gazzola di 'A Girl Named Hope' sta riscuotendo successo. Dove lo avete girato? Potete raccontarci qualche aneddoto relativo alle riprese?
E' stato realizzato nello studio di casa mia. E' arrivato dopo un percorso iniziato con ‘Rip’ ed attraverso ’One Day’. Un percorso di condivisione e crescita in simbiosi con Simone Gazzola che li ha diretti tutti e con la sua troupe formata da Stefano Campagna e Marco Pilia. L'idea era quella che i video fossero, come un tempo, un’estensione della canzone stessa, un modo di ampliare il racconto. ‘A Girl Named Hope’ è stato molto veloce da girare ma ha richiesto una lunga preparazione, perché il video volutamente essenziale assente di colore, movimenti e location poggiava tutto sulla capacità di Simone di tirare fuori da noi ciò che la canzone conteneva. L'aneddoto che amo raccontare è quello del primo ciak. Dopo quella lunga preparazione emotiva ci siamo trovati senza reti di salvataggio. Il set allestito con una poltrona, una lampada, un catino ed un secchio. Le barchette di carta e gli altri origami, nient'altro. La camera che girava direttamente in bianco e nero. Nessuna storia parallela da buttare dentro, nè una donna per riempire l'inquadratura. Tutto dipendeva da quello che saremo riusciti a dare in quel momento, alla bravura di Simone di saper vedere in quel poco la storia, nella capacità di Stefano di creare la fotografia che la sapesse raccogliere. C'era una tensione palpabile al primo ciak, positiva e buona, ma sentivamo tutti l'importanza di quello che stavamo facendo. Alla fine ho guardato Simone e Stefano ed avevamo le lacrime agli occhi, ed io ho chiesto come fosse andata, non capivo se fossero commossi da quanto visto o disperati di aver buttato via tutto quel lavoro. Era la prima delle due.

Come è nata l'inclusione del pezzo sul quarto volume di Pistoia Blues Next Generation? Quali sono le tracce che preferite sulla compilation?
Ci avevano chiesto un inedito, uno dei brani che andremo a registrare a breve e che avremo anticipato per la compilation. Poi ho dato  David Bonato il nostro disco e lui si è innamorato di ‘A Girl Named Hope’ e l'ha voluta per la compilation. Sono onesto non l'ho ancora ascoltato, sono nella fase ormai conclusa di scrittura, ed in quel periodo non ascolto ne leggo niente.

È dedicato ad una ragazza oppure il testo cela qualcosa di diverso?
La canzone parla di dipendenze, lo fà nell'idea romantica che abbiamo a volte delle dipendenze. Scrivendola avevo in mente mio padre, provavo le sue debolezze e mi sembrava di rivolgere le mie promesse a qualcuno e che quel qualcuno mi rispondesse, mi illudesse, mi ingannasse. La composizione, come per le altre, dura quanto la canzone, quando sono arrivato sul chorus mi sono trovato a cantare "call me hope" dando un nome a quella persona, dando una risposta alla mia domanda:  “ma chi sei?”.

Oltre a 'Rip' e 'A Girl Named Hope' quali sono i passaggi chiave dell'album a tuo parere?
Difficile dirlo, per me ogni brano lo è. Non è stato creato scegliendo tra tante canzoni, ma scrivendo canzone dopo canzone come fossero capitoli di un libro, sentendo ad un certo punto che quel libro era concluso, pronto. Al decimo pezzo scritto lo sentivo incompleto, con ‘Rip’ ho messo la parola fine.

'The Waiting Song' mi ha ricordato le vecchie ballate blues del passato. Siete reduci dall'ottima esibizione al Pistoia Blues. Che sensazioni vi ha lasciato? Ci sono degli artisti blues a cui vi sentite  legati?
Una grande sensazione. E’ un palco importante, arrivato dopo mesi di inattività perciò con molta ruggine, ma che credo non si sia vista a giudicare dalla reazione del pubblico. Dico una cosa scontata che quasi tutti dicono illudendosi che sia vero: il live, il palco, è casa nostra. Ci siamo sentiti a casa, in famiglia..

(parole di Giuseppe Pocai)

Predarubia
From Italia

Discography
Somewhere Boulevard (2017)