-Core
Andrea Chimenti
Italia
Pubblicato il 09/10/2017 da Lorenzo Becciani

Come sei arrivato a David Bowie?
Ci tengo a precisare che il progetto è nato prima della sua morte. Ho ricevuto una proposta per l’Estate Fiorentina da Mario Setti che mi ha chiesto di misurarmi con David Bowie per un concerto da tenersi al Museo del Novecento. All’inizio ho detto no, non volevo mettermi in gioco con un personaggio del genere. Lui ha insistito e mi ha spiegato che nella serata un quartetto d’archi avrebbe suonato Beethoven, Prokofiev e David Bowie. L’ho trovata un’idea geniale, un abbattimento di qualunque steccato in ambito musicale e allora ci ho provato. Ho preparato cinque canzoni, è andata bene e hanno continuato a chiedermelo. Ho organizzato un’altra serata al Teatro Metastasio di Prato e da lì il progetto è progredito.

É stato difficile scegliere nell’immensa discografia di David Bowie?
In parte la scelta è stata pilotata dal quartetto d’archi che esigeva delle partiture. Per questo, almeno inizialmente, ho dato la preferenza a pezzi in cui erano presenti gli archi nella versione originale.

Come è stato l’impatto col pubblico?
Non nego che avevo molto timore. Bowie è uno di quegli artisti intoccabili e difficili da riproporre. La prima serata a circa metà di ‘Fantastic Voyage’ il pubblico si è sciolto in un applauso ed in quel momento ho capito che sarei potuto arrivare alla fine. La tensione era svanita. In generale la risposta del pubblico nel tour è stata molto buona e questo è uno dei motivi per cui è uscito il live.

In futuro continuerai a proporre ‘Andrea Chimenti Canta David Bowie’?
Continueremo a proporlo con il quartetto e una band di cinque elementi ma anche in versione trio con Francesco Chimenti e Davide Andreoni, per i club più intimi.

E dopo questo progetto cosa dobbiamo aspettarci?
Dopo tanti anni in cui ho fatto solo canzoni mie, mi sono misurato con diversi autori assieme a Gianni Maroccolo e adesso con David Bowie. Vestire i panni di qualcun altro è straordinario e mi ha permesso di scoprire dei tesori. Da ascoltatore è totalmente diverso. Puoi godere della musica all’ennesima potenza ma quando ci entri dentro per eseguirla scopri degli elementi nuovi. Questo mi ha arricchito moltissimo e finirà sicuramente nel prossimo lavoro solista che uscirà l’anno prossimo. Ho scritto alcune cose insieme a Antonio Aiazzi con cui ci siamo “ritrovati” magicamente bene, dopo i tempi di Moda e Litfiba.

Contempo parla di rinascita ed in effetti, oltre a diverse ristampe, ha fatto uscire in serie il nuovo album di Miro Sassolini e questo live e tra pochi giorni pubblicherà ‘Linea Gialla’ di Antonio Aiazzi..
È questa la grande magia. Ci sono dei musicisti che hanno lasciato il segno negli anni ‘80 e continuano a lavorare ancora ma serviva un’etichetta che li rimettesse insieme. È grazie a Contempo se si sta ricreando un mondo che era sommerso ma ancora molto vivo. In questo senso mi aspetto delle sorprese. Detto questo, tanti giovani ascoltano la musica degli anni ‘80 e trovo positivo questa sorta di sodalizio e incontro. C’è bisogno di nuove sperimentazioni.

Il secondo album dei Moda, ‘Canto Pagano’, fu prodotto da Mick Ronson. Cosa ricordi di quell’esperienza?
Trascorse un mese in via dè Bardi 32 e un paio di mesi al Transeuropa di Torino. Produsse l’album con sommo stupore da parte nostra. Lui all’epoca abitava negli Stati Uniti e li facemmo arrivare dei provini. Venne a cenare a Firenze e ricordo ancora che quella sera d’estate non mangiai niente. Ero sconvolto dalla sua presenza e mi si bloccò lo stomaco. Ci salutò con la promessa che sarebbe tornato a fine anno. Ricordo che si mise in cantina a leggere il giornale mentre noi suonavamo in continuazione tutti i pezzi del disco. Quando ci fermavamo ci diceva di continuare. All’inizio rimanemmo stupiti da questo modo di lavorare ma capimmo presto che lo faceva per entrare nelle canzoni e fare sì che ci appropriassimo di esse. A quel punto diventò uno di noi, condividemmo un appartamento a Torino e fu incredibile. Gli ho visto fare degli assoli da capogiro. Le corde gli saltavano e lui continuava. Mi ricordo che metteva in saturazione un Foxtet 4 piste senza amplificatore. Ci mise il cuore e per noi quella collaborazione ebbe dell’incredibile perché, oltre ad essere il chitarrista di Bowie, aveva lavorato con Lou Reed, Bob Dylan e Ian Hunter.

Come ci si approccia ad un artista del genere?
Prima di tutto mi sono spulciato tutte le traduzioni per cercare di capire tutto quello che c’era dietro alle canzoni. Avevo bisogno di approfondire i meccanismi dell’artista. Un approccio timido quindi, imbracciando la chitarra e vedendo se ero in grado. Vocalmente sembrava fattibile a parte alcune parti in cui ho cambiato la tonalità per avvicinarla alle mie corde. Di sicuro ci ho lavorato tanto. Dietro a questo progetto non c’è niente di improvvisato.

Uno dei pregi del live è che non hai ripreso solo i classici ma anche pezzi recenti o meno conosciuti. Volevi costruire una sorta di percorso?
Siamo partiti con ‘Lazarus’ che sfociava in ‘Space Oddity’ per il legame con quest’uomo che si è perduto nello spazio o che comunque sta lasciando la terra. Abbiamo deciso di salutare con ‘Where Are We Now’ che considero una sorta di testamento quindi c’è un certo discorso narrativo.

Di recente i Depeche Mode hanno scelto ‘Heroes’ come simbolo del loro tour. A parte questa hit immortale pensi davvero che i testi di David Bowie siano attuali?
Assolutamente sì. In ‘Fantastic Voyage’ parla di non volere sottostare alla depressione di qualcun altro e invita a non lanciare i missili. I contesti sono differenti ma l’umanità è sempre la stessa. ‘Heroes’ è qualcosa che va al di là della semplice canzone. Mi piacerebbe sapere cosa sia capitato a lui e Brian Eno il giorno che l’hanno scritta.

 

Andrea Chimenti
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